28 December 2007

Work in progress..

Buongiorno mondo.
Buongiorno vita.
Buongiorno peccato.
Ogni istante speso a lottare, a gioire, o a soffrire, non è un istante andato perduto. Ogni tentativo, ogni lacrima, ogni carezza sospirata, non è un gesto volatile e vacuo.
Ogni momento di questa vita, nel bene, nel male, nel dolore e nell’amore, è un momento di crescita, di maturazione, di intimo riscatto.
Quando apri gli occhi appannati dalle lacrime che ti stavano per soffocare, quando stringi i pugni per non lasciare che il dolore si porti via tutto di te, anche quelle situazioni rimarranno custodite in te. Nel tuo cuore, nel tuo piccolo spazio.
Gli errori soprattutto, non si lasceranno dietro solo tracce dolorose e insanguinate, ma serberanno degli insegnamenti, dei consigli, dei moniti per poter, un giorno, poter costruire qualcosa di buono.
Dalla vita ho imparato questo, che soffrire è parte di essa, che la gioia è come una pepita in una miniera di carbone, un piccolo punto luminoso in mezzo alla materia grezza.
Dalla vita sto imparando a resistere, sto cercando di diventare migliore.
Spero di poter alzare un giorno lo sguardo verso il cielo.

24 December 2007

Christmas Carrol

La vigilia di Natale. Come ogni anno, come ogni secolo, come ogni spregevole era.

Torna la vigilia, torna la mezzanotte affollata di messaggini di persone che ti rovolgono la parola unicamente stasera. Torna la massa di auguri ipocriti, o ancora peggio indifferenti.

Gli auguri tramite sms, quelli attraverso i bigliettini.

Tutti che dicono auguri. Nessuno che dice ti voglio bene.

Tutti che ti augurano felicità. Nessuno che fa nulla di concreto per avvicinarti ad essa.

Tutti che sorridono e si scambiano doni. Nessuno che si ama.

24 Dicembre. La sera dell'anno in cui la televisione è peggio del solito.

24 Dicembre. La sera in cui l'umanità si sforza di mostrarsi migliore di quanto non sia.

Ricevere, il 24 dicembre, più abbracci di quanti non se ne ricevono in un anno.

Dimostrazioni di affetto ipocrita.

24 Dicembre...tra poche ore nascerà il nostro salvatore. Sono più di duemila anni che lo aspetto. Qualcuno che mi salvi davvero.

21 December 2007

La spiaggia..

Forse è l'effetto della solitudine. O la paura di essa. O la lucida consapevolezza di essere eternamente soli.
Io rimango qui, seduto sulla sabbia, tutt'uno con la spiaggia e l'universo. Il vento, gelido, che sferza il mio volto; i capelli, tumefatti, che piangono facendo compagnia ai miei occhi.
E sull'orizzonte di un mare in burrasca vedi l'ombra di un presente che sembra destinato ad infrangersi sugli scogli acuminati.
No per favore trattieni le lacrime.
Rimanere soli, in un mondo che collassa sulla tua solitudine. Un mondo che sei tu, con le tue mani rabbiose e sporche di sangue, e frantumare in tanti minuscoli frammenti rozzi e taglienti.
E sono quei frammenti, che si conficcano in profondità, che marciscono nel profondo delle tue ferite, che ti uccidono. Come un cancro da cui non hai via di fuga. Come un cappio che inesorabilmente serra la sua presa sul tuo collo. E ti mozza il respiro.
Dopo tanti anni, in cui non ho fatto altro che deludere me stesso e chi mi stava vicino, lascio che le onde rabbiose e la spuma incandescente mi avvolgano..e prendo il largo.
Verso mete nuove, verso lidi che sembrano da lontano più luminosi ma che sono in realtà identici a quelli desolati che abbandono. Verso una tempesta minacciosa che dichiara la sua volontà di afferrarmi e farmi affogare.
Sulla sabbia, seduto, con i polsi tagliati che irrorano questi frammenti di montagne. Con le lacrime che si mischiano al sangue, con l'anima che prostrata a terra implora pietà.
Rimango sulla sabbia con di fronte quella ragazza. Quella senza volto, senza nome, ma che tante, troppe volte mi ha fatto pensare che con lei sarebbe stato diverso, che allora davvero sarei stato felice.
Ma rimani lì, seduto, immobile. Perso.

19 December 2007

I.N.R.I.

Porto i jeans larghi. Troppo per la mia taglia.
Le maglie devono essere giuste. Devono farmi sembrare un po' più magro di quello che sono.
I capelli li piastro ogni mattina e li spettino per far finta di essere casual.

Se mi chiedessero perchè faccio le stupidate che faccio non saprei rispondere.
Se mi chiedessero perchè mi drogo, risponderei con un silenzio istupidito.
Se mi chiedessero cosa mi ha fatto di male il mio fegato, rimarrei muto.
Se mi chiedessero perchè non riesco ad essere la persona che vorrei, perchè non riesco a seguire i valori e le idee che reputo importanti, perchè non sono capace di accontentarmi, non saprei veramente cosa dire.
Se mi chiedessero perchè guardo in quel modo strano la persona sbagliata arrossirei forse.

Io
Io e i miei mille desideri contraddittori.
Io e i mille motivi che mi rendono scontento.
Io e me stesso.
Io e gli altri.

Cosa posso farci se non riesco essere come dovrei? Come faccio a recuperare ciò che ormai è andato?
Voglio sparire in una vampata di coriandoli e scintille, come la più bella delle colombe.
Io voglio, io voglio, io voglio, io voglio, io voglio, io voglio, io voglio, io voglio, io voglio, io voglio, io voglio, io voglio, io voglio, io voglio, io voglio, io voglio, io voglio, io voglio, io voglio, io voglio, io voglio, io voglio, io voglio, io voglio, io voglio, io voglio, io voglio, io voglio, io voglio, io voglio, io voglio, io voglio, io voglio, io voglio, io voglio, io voglio, io voglio, io voglio, io voglio, io voglio, io voglio... e intanto...
questo mondo
perde i pezzi.
Il mio mondo
si disgrega.

Eccomi!
Sulla croce, con le lance a trafiggere il mio costato nudo e nervoso.
Il sangue, come corona le spine, come madre la croce.
Come amore... una speranza disillusa.

Amen

16 December 2007

Il signor G

Sembra quasi di riferirsi a mille anni fa quando si parla di Giorgio Gaber, quando si parla delle sue canzoni semplici, naturali e inimitabili.
Gaber, il più grande di sempre, insieme solo a Fabrizio De Andrè, scriveva canzoni che facevano ridere tutti, soprattutto chi non era poi così raffinato da aspettarsi voli aulici. Eppure sembra che Giorgio Gaber sia morto cento anni fa, sembra che i suoi capolavori siano antichi quanto quelli di Dante e Boccaccio.
E questo è molto strano, visto che si è spento il primo gennaio del 2003, appena cinque anni fa.
Ed è molto strano anche che i giovani di oggi si sentano più vicini ai Queen, agli Iron Maiden, la cui cultura non ha nulla da spartire con la nostra, la cui traccia nella storia rimane sì, ma ad un livello molto più superficiale di quella di Gaber.
Giorgio Gaber, non appartiene ad una realtà separata dalla nostra: egli riempì i teatri dagli anni settanta fino ai novanta. Mio padre mi racconta sempre di come lui, quando aveva la mia età, facesse la fila dalle sei di mattina, facendo i turni con gli amici, per poter acquistare i biglietti per gli spettacoli di Gaber.
Eppure, Gaber sembra aver poco da spartire con noi.
Eppure i miei coetanei sanno poco o nulla di Gaber.
Gaber non era un agitatore politico, Gaber non era un mito, Gaber non era una star. Giorgio Gaber era uno di noi, un uomo immerso nella società italiana, capace però di penetrarne i risvolti che solitamente rimanevano insondati.
La sua capacità di far ridere con canzoni apparentemente grossolane era una sfaccettatura del suo genio: come ho già detto Gaber era uno di noi, era un menestrello con una mente che andava al di là della realtà, proprio per questo è sempre stato sentito parte del popolo italiano, il più delle volte ne è stato anzi il portavoce.
Gaber faceva ridere e faceva piangere. Gaber ha permeato tutta la sua opera con un’integrità e una signorilità che nessuno ha mai avvicinato.
E agli spettacoli di Gaber c’erano tutti. I giovani, i vecchi, i poeti e gli operai. E tutti insieme erano un unico uomo.
Allora perché oggi Gaber è così lontano dai giovani? Perché tutti sanno le canzoni di Lucio Battisti ma pochi conoscono quelle di Gaber? Per quale motivo Gaber ha creato una frattura,tra quelli che lo conoscevano e lo amavano quando era in vita e quelli che non lo hanno mai visto e non se lo sentono vicini?
Eppure io conosco Gaber e amo le sue canzoni, mi commuovo quando ascolto “L’illogica allegria” e rido di gusto quando lo sento recitare i suoi eccezionali monologhi. In fondo la mia generazione ha tutto alla sua portata, non sarebbe infatti difficile scaricare da Internet i suoi spettacoli e gustarseli in camera da letto.
Purtroppo la risposta è che i giovani di oggi non hanno voglia di ascoltare veramente qualcuno; nessuno,o quasi, apprezza il teatro per la sua nobiltà, e il teatro di Gaber in particolare per la sua mai superata genialità. È molto più rilassante la Playstation 3, o il cellulare, o il blog su messenger.
La mia generazione viziata non farebbe mai ore di fila per uno spettacolo, o per un concerto. Oggi i biglietti si prenotano su internet. Oggi l’intrattenimento è dentro una scatola cubica e non in una platea.
La mia generazione non si commuoverebbe ascoltando “Qualcuno era comunista”, la canzone italiana più profonda, dura, vera che sia mai stata scritta. Ma molti si metterebbero a piangere al concerto dei Blue o dei Tokio Hotel per ragazzini ventenni costruiti dal marketing più spietato.
Giorgio Gaber non è mai stato commercializzato. Giorgio Gaber non è quasi mai andato in televisione, e le sue rare apparizioni non erano fatte di autocompiacimento o di autocelebrazione, erano esclusivamente opportunità per toccare un pubblico più ampio.
Mi dispiace vedere che la mia generazione ha perso, che non ama più sentirsi riempire il petto di commozione, di tenerezza e di affetto come capita solo quando si ascolta Gaber.
Giorgio Gaber ha avuto la fortuna di trovare, nel suo trentennio di successi, un’Italia che anche dopo le grandi delusioni utopistiche, aveva ancora voglia di sognare.
Ma per me è drammatico che il suo grido sia destinato a perdersi nel nulla. Che il grande dono che lui ci ha lasciato, un’eredità così piena di potenziale, venga dissipata per colpa nostra.
Noi siamo la generazione del duemila, quella con più possibilità di tutte le altre, quella proiettata nel futuro ma incapace di costruirsi basi concrete. Siamo la generazione dei computer e degli mp3, delle chiavette USB e dell’iPod, la generazione che, come diceva Gaber, ha perso.

11 December 2007

NEVER FEEL SO ALONE

Ogni giorno, giorno dopo giorno, avere il coraggio di ritornare su queste pagine per mostrare qualcosa di sé. Forse, dopo tanto tempo, sono disposto a mettermi qui di fronte con serenità, con lucidità.
Non sono diverso, non è che oggi sia meglio di ieri. Però, oggi, nonostante questa mia vita, voglio scrivere della mia infelicità come farebbe una persona lucida.
Non mi sono mai sentito così solo. Così benvoluto ma intimamente solo; estraneo tra queste persone che mi spaventano.
Mentre rifletto sui motivi di questa infelicità che sembra non allentare mai il suo morso su di me, mi domando se forse a essere sbagliato non sia io.
In fondo il concetto di amicizia, di complicità, è qualcosa che ci sfugge costantemente.

I marshmellows si abbrustoliscono lentamente all’eco del calore della fiamma mentre io, nella più totale solitudine del bosco, apro l’ennesima birra.
Un cartone animato che corre sul computer mentre io, da solo, lo guardo sognando.
Leggere i miei versi in solitudine fumando uno spinello.
Sognare da solo.
Confessarmi a me stesso.
Pregare da solo.
Sono solo. E lo sento tutti i giorni, tutti i giorni di più.
Mentre mi aggrappo ad un salvagente forato mi guardo intorno e non vedo nessuno pronto a salvarmi.
Mi sto aggrappando a speranze di fumo.
Sto continuando a sperare in ciò che non c’è. Basterebbe essere razionali, sinceri con se stessi, e dirsi “sono solo.”

C’è un significato se la pace la trovo nell’arte. Ossia nella quint’essenza della solitudine. L’arte è il momento in cui io, solo, divengo tutt’uno con ciò che mi circonda.

Perché continuo tutti i giorni a essere sempre lo stesso? Perché non dico tutto apertamente senza curarmi di nulla? Perché mi freno se penso di ferire gli altri?
In fondo, non è quello che fanno loro ogni giorno?
In fondo, non è ciò che mi hanno sempre fatto?
Dovrei abbandonare ogni forma di lealtà, di giustizia; vivere assecondando esclusivamente i miei capricci, prendere tutto senza lasciare nulla.

Ogni battuta di tasti mi rende più leggero, più cattivo, e sicuramente più solo.

08 December 2007

Sabato sera

Sabato sera,
la gente è fuori, si diverte, si gode l'unica serata libera della settimana.
Il fatidico sabato sera.
Io sono rimasto in casa. Da solo, per scelta. Perchè non avevo voglia di uscire, non avevo voglia di fare, ero stanco, ero forse depresso.
E mentre tutti si divertono nessuno pensa che altrove c'è gente che soffre. Persone che vivono la sofferenza nella più totale solitudine.
Tutti sono capace di mostrarsi addolorati al momento dell'esplosione, ma solo i migliori sanno restare per aiutare i feriti.

Sabato notte, di sotto le macchine continuano a sfrecciare senza pausa. L'aria fresca rotola intorno al mio corpo nudo. Le notti di dicembre sono gelide come l'acqua dell'oceano. Ma poco importa perchè questo mio corpo sta per essere congedato.
Mi viene da domandarmi cosa realmente abbia importanza. Quali siano i dettagli veramente significativi e quali senza significato.
Mi chiedo se forse non bisognerebbe ribaltare tutti gli schemi che abbiamo. Dare importanza ai soldi e tralasciare gli affetti.
Cosa è davvero importante?
L'amore? La felicità? La serenità?
Il successo? Il denaro? Il rispetto?
Forse è più giusto essere stronzi e infedeli, predatori senza scrupoli.
Le mie dita dei piedi si intorpidiscono per via del freddo. Le mani si contraggono spasmodicamente per riscaldarsi. Il cuore sobbalza.
Sono in attesa di qualcosa che non so se arriverà. Forse sono semplicemente in attesa del coraggio.
Lunghe ombre di angoscia mi avvolgono. Mi domando se sono abbastanza forte.
Ho tanti sogni, tanti progetti. Ho voglia di diventare qualcuno, voglia di amare, di conoscere nuove persone, vivere nuove passioni.
Ma è tutto così sbiadito che non sembra nemmeno concreto. La mia realtà è coperta da un velo di polvere che rende il tutto nient'altro che un sogno.
La musica continua a suonare mentre le macchine sfrecciano come piccole biglie impazzite.
Tra me e il vuoto c'è il vuoto. E un sottile ago di speranza conficcato nella mia nuca.
Mentre percorro un passo fallace mi vengono in mente tutti i motivi per non fare quella pazzia: le lacrime di mio madre, lo stupore di mio padre. Lo sbigottimento nei miei amici.
Quel falso sbigottimento di chi c'è al momento dell'esplosione, ma subito dopo se ne va.
Ma ormai è troppo tardi, il mio piede ha già superato il limite dell'equilibrio, tutto il mio corpo si sbilancia in una danza di morte.
Mi ricordo che una volta mi sono anche innamorato di un sogno.
Ormai è troppo tardi. Il vuoto assottigliandosi mi avvicina al nulla.
Sono nulla e precipitando nel nulla ne diverrò parte.
Lascio i miei sogni a qualcuno più caparbio di me.