29 January 2008

" D eci e lode"

Premio D eci e lode
"Premio D eci e lode"
"perchè fonde la sua visione del mondo e un'ottima scrittura"
Ho avuto l'onore di ricevere questo premio dal mio idolo Marco Montini, blogger dell'unico e inimitabile http://www.iamlocal.blogspot.com/ altrimendi detto "A LOCAL BLOG FOR LOCAL PEOPLE".
Ringrazio per il riconoscimento (il primo per questo blog modesto ma dal cuore grande, un po' come la Reggina..) e procedo alla nomina dei miei personali award:
1) http://www.iamlocal.blogspot.com/ il suddetto "A LOCAL BLOG FOR LOCAL PEOPLE", per la compagnia che sa tenere quando non sai cosa fare e la vita ti butta giù;
2) http://www.nakaswa.blogspot.com/ il blog che racconta di un viaggio indimenticabile attraverso l'Africa e non solo (peccato che mio cugino non lo aggiorni mai..)
3) http://www.davidfoldvari.blogspot.com/ il blog del mio designer grafico preferito che tiene sempre aggiornati sui suoi capolavori;
4) http://www.wollypigs.blogspoc.com/, un sito che non ho capito di cosa parla ma è pieno di foto di maiali e costolette ai ferri..
In seguito posto le regole:
1) Esporre il logo del “Premio D eci e lode” con la motivazione per cui si è ricevuto;
2) linkare il blog di chi ti ha assegnato il premio;
3) lasciare un link che si rifà al post originario
4) inserire il regolamento;
5) premiare almeno 1 blog aggiungendo la motivazione.

Odio

Odio quando le persone pensano di capirti, di sapere realmente qualcosa di te.
Odio i giorni passati a fissare un foglio bianco ad attendere che siano le parole a venire fuori da sole. Odio quando guardi gli altri e pensi che la loro erba sia effettivamente più verde della tua.
Odio il dolce e il salato, il bello e il buono, odio i dualismi, ciò che va bene e ciò che no.
Odio può voler dire mille cose ma non vuole dire nulla perché siamo noi, noi che abbiamo bisogno di odiare così come abbiamo bisogno di amare, così come abbiamo bisogno di soffrire. Sembra un ridicolo gioco: rincorrere un essere speciali che nulla centra con noi. Noi non siamo fiocchi unici e irripetibili di unica e irripetibile bellezza, siamo la stessa materia organica deperibile di chiunque altro e noi tutti siamo parte dello stesso cumulo in decomposizione.
Abbiamo bisogno della nostra tragedia e ci sentiamo bene ad essere il centro di essa.
Quando chiediamo a qualcuno come ha passato il fine settimana, lo facciamo esclusivamente per poter raccontare come abbiamo passato il nostro.
Siamo il costante protagonista della nostra serie a puntate.
Odio questa natura intrinsecamente sbagliata, congenitamente ridicola.
Odio chi si sente già maestro, chi crede di avere un dono che lo rende speciale.
Odio un’umanità che mira esclusivamente ai suoi quindici minuti di popolarità in televisione.
Odio il fatto che siamo tutti sbagliati.
Odio questo piombo, che àncora a terra un’anima di elio.

Come una circonferenza

Osservo il mio riflesso nello specchio e, nel frattempo, afferro il fondo tinta più chiaro che trovo tra i prodotti di mia madre. È quasi bianco.
Senza distogliere lo sguardo da me stesso comincio a spalmarmi e a distribuirmi sul volto quella maschera opaca che mi trasforma gradualmente in un viso di cera con gli occhi azzurri che sfavillano nel bianco.
Questa è la mia forma di ribellione.
Prendo da una tasca il rossetto nero che ho comprato per l’occasione e comincio a disegnare scuri solchi sui miei occhi e le mie guance. Sottolineo i contorni delle mie orbite, la linea delle mie labbra, le pieghe del mio sorriso. Piano piano mi trasformo in un agghiacciante satiro.
Guardando il nuovo me stesso che si riflette nello specchio osservo il mio corpo, nudo e fragile, che trema come una foglia nel freddo autunnale.
Spalanco la bocca e il rosso violento della mia lingua fa esplodere il bianco e il nero e d’improvviso divento un demone dell’inferno, divento uno spettro vendicatore.
Come una circonferenza ritorno al punto di partenza, mi vedo stupido e ridicolo. Mi lavo la faccia e mi vesto. Il lavandino imbrattato di nero e bianco sembra perdere i contorni.
Come una circonferenza. Odio tutto questo.

24 January 2008

Macchina da scrivere

Le lettere si dipanano, ad ogni termine di riga si impilano a capo. Le lettere si srotolano in una sorta di magica apparizione. Ed è magico perché così, dal nulla, nasce qualcosa, un testo, una poesia, un pensiero.
Nasce cresce e si completa in se stesso un piccolo nucleo. Esiste in se stesso e per se stesso un nuovo pensiero che prende vita. E io sono suo creatore e imperatore.
La magia risiede nella possibilità di creare e plasmare nuovi mondi, nuovi universi, col semplice accostamento delle lettere, delle parole che unite compongono frasi.
Ognuno di questi mondi è un piccolo antro ombroso in cui nascondersi e per qualche istante, vivere una vita diversa, migliore, più felice e più colorata.

15 January 2008

Requiem

Ogni giorno, al suono della sveglia, apro gli occhi stanchi, sbatto queste palpebre di cemento e inalo la prima boccata di ossigeno della giornata.
Ogni mattina, con una lama che sembra raschiare contro la mia schiena nuda, faccio lo sforzo per alzarmi dal letto e vivere.
Ogni maledetto giorno compio altri passi, che si impilano a quelli precedenti e che lentamente, inesorabilmente, mi conducono verso il niente.

Ecco cos’è la vita. Una sequenza imprecisata di passi, di sbadigli e di sveglie che scandiscono il ritmo della tua esistenza. Forse la vita non è nient’altro che cercare in un qualche modo di dare un senso, a tutti questi passi.
La vita probabilmente è un sentiero che noi rendiamo più o meno impervio e che, per tutti nessuno escluso, porta in un burrone senza fondo; nel quale possiamo limitarci a svanire. La vita come una bomba ad orologeria. La vita come eterno precipitare. La vita come sadico gioco di ruoli.

Ogni giorno osservo il mio volto rimanere identico al giorno prima, ogni giorno con gli stessi occhi tristi, con la stessa pelle tesa. Ogni giorno con un rammarico nuovo da caricarmi sulle spalle.

Il gioco terribile della vita consiste nel costringerti ad accettare tutto quello che ricevi senza chiedere senza poter fare diversamente. Un gioco che ci intrappola dal primo, all’ultimo giorno.
Ecco cos’è la vita, ecco qual è la nostra gabbia. Ecco il pantano in cui stiamo affondando.
Perché ogni giorno devi infilare le scarpe e immergerti fino alle cosce nella merda della tua esistenza, senza alcuna speranza di uscirne, senza speranza di evitare quel supplizio. È la tua ricompensa per aver accettato questo regalo che non hai mai chiesto, ma che ti è stato comunque dato.
Ogni giorno il tuo ruolo è quello di affondare in questo pantano un centimetro di più, aspettando di affogarci. Aspettando di riempirti la bocca e il naso di quella nefandezza che ci ostiniamo a chiamare vita. E l’amore? L’amore che ruolo riveste in tutto ciò? Possibile che sia null’altro che il contorno di una pietanza a base di fango e bile? Possibile?
L’amore.
L’amore è semplicemente la morfina che ci permetterà di non soffrire troppo quando il blob che chiamiamo vita ci inonderà i polmoni, stracciandoli. Poi riempirà la nostra cassa toracica fino a saturarci, ma a quel punto noi saremo già morti, perché una volta che sei stato violentato a quel modo, perdi ogni tipo di forza. L’amore non si spiega né con i concetti né con le parabole. L’amore non ha regole perché non ha senso.

Questa mattina, destato dal suono fastidioso della sveglia, apro gli occhi. Sbatto le palpebre come per togliervi la polvere. Rimango immobile ascoltando la sveglia ruggire sempre più forte.
Dalla porta entra rumore di casa, di famiglia. Dalla finestra giungono i vagiti di una città che sta cominciando a mettersi in moto.
Come ogni giorno.
Come ogni giorno.
Rimango immobile nel letto ascoltando la mia barba crescere. Sentendo i respiri accavallarsi. Non c’è scampo. Me ne rendo conto ogni secondo di più. Non esiste via di fuga da questa trappola. Non ci sono uscite, non c’è aria, non riesco più a mettere in fila i respiri.
Non riesco a ragionare. Mi manca l’aria nella bocca e la lingua mi si sta seccando. Sento i battiti irregolari mentre la sveglia sembra impazzire. Il fango dalla sua pozza balza dritto per dritto contro di me. Piano piano si stende per tutto il letto e è ovunque intorno a me. La sveglia diventa una fanfara di trombe tamburi e grancasse. Mia madre entra in camera mia proprio mentre il fango mi sta riempiendo la bocca. Il suo viso diventa una maschera di terrore, mi vede contorcermi sul letto con le mani sul cuore.
No non è al cuore, è sulla faccia, è nella bocca e nelle orecchie. Mi strangola sempre più forte. Mia madre terrorizzata e io divento sempre più paonazzo. Sento il fango che mi stride fra i denti e pizzica le mie narici, e nelle orecchie bombarda i timpani con cannonate. Sento che mi scende in gola con un sapore come quando cadi e annusi l’odore della terra nuda. Mi sta per fare esplodere. Mia mamma parla ma io non riesco a sentirla perché le mie orecchie sono piene di fango. Lei sparisce mentre la melma mi copre gli occhi e preme su di essi. Mia madre si lancia su di me. Il fango è dappertutto.
Voglio vivere.

Nathan Scott

Il ragazzo è alto, davvero alto. Sarà un metro e novanta, forse anche qualcosina in più. Aveva i capelli piuttosto lunghi, che scendevano selvaggi fino alle spalle. Sul mento e sulle guance una barba lunga, incolta, anche quella selvaggia.
Stava seduto immobile, guardando i trofei nella loro bacheca scintillante. Guardando le foto, le copertine dei giornali, le targhe al merito.
Rimaneva seduto con lo sguardo che si attorcigliava sui quei cimeli che sembravano ad appartenere a qualcun altro, qualcuno che avrebbe ancora lottato per ottenerne altri, e altri ancora.
Si chiamava Nathan Scott, era un ragazzo alto, coi capelli lunghi e la barba non curata.
Nathan sedeva con gli occhi umidi e le braccia nervose; le mani, serrate in pugni che sembravano strozzare se stessi per la forza con cui venivano stretti; i bordi delle labbra completamente immobili, pietrificati in quella smorfia inespressiva, ma carica di rassegnazione.
Nathan era arrabbiato, era infuriato.
Quel ragazzo possente, con quella barba che sembrava ricordare un giovane marinaio, con quegli occhi così giovani, così pieni di cose da dire, ma così irrimediabilmente tristi. Con quei capelli disordinati che chiedevano di essere tagliati, pettinati. Con quei capelli che ricadevano su quegli occhi pieni d’acqua, forse per il colore azzurro, forse per un mare che stava per inondare il suo viso.
Nathan Scott, ventun anni. Il primo ragazzo proveniente da Tree Hill accettato nell’NBA. Nathan Scott il genio del canestro, Nathan Scott…il ragazzo triste.
Seduto immobile, con uno sguardo di ammirazione e uno di rabbia; con un moto di amore e uno di odio.
Nathan Scott, seduto senza parole ma con troppi sentimenti a ribollirgli dentro e soprattutto, troppe, troppe domande a cui non sapevi rispondersi.
Afferrò i cerchioni della sedia, bloccando solo il destro, per potersi voltare. Poi, con lo sguardo basso, si spinse fino alla camera da letto.

03 January 2008

Lirica e inchiostro

La poesia risiede nell’angolo più remoto e nascosto di noi. In un risvolto spesso non accessibile, sempre difficilmente districabile. La poesia non è la bellezza stupefacente di ciò che si crea, è piuttosto la consapevole costruzione di sé stessa.
La poesia è magnifica nel suo rigore che poi, successivamente, diventa bellezza. Dietro allo splendore c’è sempre un flusso esplosivo di creatività, incanalata attraverso i mezzi artistici più disparati.
La bellezza di ciò che è bello tocca i punti più profondi del nostro animo, tocca le corde che solitamente rimangono spente.
Quando scrivo, quando cerco di comporre un quadro con le parole, quando tento di farvi provare qualcosa, io mi limito a dare libero sfogo a ciò che dentro di me è contenuto. Non faccio altro che aprirmi e vedere se c’è qualcosa di buono da far fuoriuscire e incorniciare.
Ma, quando dentro di te la tua anima sta lentamente marcendo, quando il tuo regno interiore è assediato dai crampi della solitudine, dell’incomprensione, allora diventa difficile estrarre qualcosa di bello, di perfettamente bello, come un sorriso, o un paesaggio. Quando il tuo cuore sta appassendo allora i germi cominciano ad impestare tutto quanto. E diventa impossibile estrarre qualcosa che sembra bella.
Perché chi è artista, chi ha un dono, è sempre capace di creare bellezza. Ma quando il suo spirito si ammala e i cancri cominciano a divorare tutto allora la bellezza diventa qualcos’altro. Diventa sublimazione. Non è più qualcosa che piace a tutti, ma è comunque splendida. È coperta di sangue e di vermi, ma rimane per me unica e magnifica.
È una bellezza che nasce dal dolore, qualcosa che va oltre, qualcosa che si compie nella simbiosi con l’artista. Quel tipo di estetica non ha nome e non ha nemmeno successo, ma è la più vera, quella che, deturpata, violentata, sudicia, ma autentica, mostra davvero il mondo così come l’artista lo vede.
Vi domando scusa se l’evoluzione di ciò che faccio sta portando la mia opera ad un’antiestetica totale. Ad un ripiegamento del testo su se stesso per vedere quale forza sia nascosta in esso: comprimendo se stesso allora il testo mostra quale è la sua resistenza; violentando un corpo si può capire quale sia la sua capacità di reazione. Ogni parola, ogni tortuoso salto concettuale è specchio della mia mente, è rigoroso ritratto di ciò che sono.
Io sto marcendo dentro, ho bisogno di trovare un appiglio, o quanto meno un palliativo, e lo sto cercando nei miei testi. Ma per potermi affidare al mio creare devo sapere fin dove esso può giungere. Per nutrire fiducia in esso devo capire fino a dove posso spingerlo.
Ciò che scrivo, ciò che vomito, sta diventando tagliente, spigoloso, ruvido. Diventa ogni istante più abrasivo, più flaccido, più distorto.
Ma sta diventando la mia ancora di salvezza.
Sta diventando me.